Intervistiamo Mastro Elia: la musica come viaggio tra epoche, culture e bellezza
C’è un modo di raccontare la musica che non si limita a spiegare, ma che incanta, trasporta e fa vibrare corde antiche e moderne allo stesso tempo. È quello di Elia Bertolazzi, conosciuto online come Mastro Elia, insegnante di musica e divulgatore di storia musicale.
Laureato in Discipline musicologiche all’Università di Bologna, ha dedicato la sua tesi ai viaggi di Pietro della Valle, esplorando il dialogo tra la musica del primo Seicento e le sonorità orientali.
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Dal 2020, con il suo canale YouTube, Mastro Elia ha reso accessibili temi che spesso restano confinati tra le mura accademiche, portando il pubblico a scoprire la magia della musica medievale, dei Trovatori, del Canto Gregoriano e delle prime forme polifoniche. La sua voce e la sua passione hanno attraversato abbazie, festival e scuole, trasformando la storia della musica in un racconto vivo, fatto di emozioni, curiosità e bellezza condivisa.
In questa intervista, Mastro Elia ci accompagna in un viaggio tra passato e presente, tra la grazia delle donne che hanno ispirato versi e melodie e la forza di una musica che continua a parlare al cuore di chi sa ascoltare.

L’intervista
Ciao Elia, Benvenuto.
La tua formazione nasce da un profondo interesse per la musica antica e per i suoi legami con culture lontane. Cosa ti affascina di più di questo dialogo tra Oriente e Occidente nel primo Seicento?
La mia formazione nasce prima di tutto dall’arte visiva. Sono cresciuto tra colori, pennelli e tavole di legno dipinte: mia madre è una pittrice, e il suo laboratorio è stato il mio primo terreno di gioco. Quell’ambiente – insieme alla vita in una piccola frazione ligure, immersa
nella natura – mi ha insegnato fin da bambino che esistono molti modi di esprimersi.
Anche se non aveva nulla a che fare con gli strumenti musicali, era un ambiente pieno di stimoli creativi. E in casa si ascoltava comunque tanta musica, anche classica: oggi, lavorando nella scuola, mi rendo conto di quanto quell’ascolto apparentemente “passivo” abbia lasciato una traccia netta. Non sono cresciuto in una famiglia facoltosa, ma in casa circolavano libri, immagini e riferimenti culturali: elementi semplici, ma che possono fare davvero la differenza nella formazione di un bambino. Forse anche per questo, più avanti, ho scelto il liceo artistico. Ma intanto la musica continuava a bussare.
La svolta è arrivata quando un musicista, intuendo quanto mi affascinasse, mi regalò una sua vecchia chitarra classica. Ero tra la terza e la quarta superiore: non più giovanissimo, ma comunque abbastanza libero da potermi invaghire
subito dello strumento. Da lì ho iniziato davvero a esplorare, perché fino ad allora la musica l’avevo vissuta solo “da fuori”, come ascoltatore curioso. Ho cominciato da solo e, pur senza
maestri, nel tempo ho incontrato musicisti sempre più esperti che mi hanno aperto molte strade e ampliato il mio modo di ascoltare e di suonare.
All’università ho poi trasformato quella scintilla in un percorso: prima Torino, con il DAMS, poi Bologna con la magistrale musicologica. Lì ho incontrato la musica antica non come un
reperto polveroso, ma come un campo vivo, fatto di storie, testi, lingue, strumenti, culture che dialogano tra loro. L’approccio filologico e, soprattutto, quello storiografico mi hanno
catturato: la ricerca, le fonti, la ricostruzione.
È stata quella complessità, più di tutto, ad affascinarmi. Conoscere musicologi importanti, lavorare a ricostruzioni di opere seicentesche e condividere il percorso con compagni di corso imbevuti degli stessi stimoli è stato decisamente incoraggiante. Parallelamente ho sempre coltivato anche interessi sonori differenti. A Bologna ho suonato musica tradizionale brasiliana, lo Choro, e oggi, con il collettivo Mangiatutto, continuo a creare in una direzione completamente diversa da ciò che racconto online. Due piani separati, ma che convivono benissimo e si autoalimentano.
Dopo gli studi sono tornato a Mondovì, una città piccola, e all’inizio temevo di perdere gli stimoli e il ritmo delle letture universitarie. Poi è arrivata la pandemia. In quel periodo, paradossalmente, mi sono accorto che non volevo lasciar andare ciò che avevo studiato: ho
ripreso a leggere, a cercare, a studiare. Ed è tornata a galla un’idea che avevo accarezzatoanni prima. Così è nato Mastro Elia, il mio canale YouTube dedicato alla storia della musica.
L’esposizione online, per quanto limitata, può far apparire le cose più lineari di quanto siano state davvero. E proprio per questo dico che la musica antica, in particolare quella medievale, non è stata il mio primo amore, ma un mondo attorno al quale ho sempre
orbitato. Oggi mi affascina non tanto il periodo in sé, quanto la sua natura profondamente interdisciplinare: testi, iconografia, strumenti, lingue, contesti storici, tutto si intreccia in modi
che continuano a sorprendermi.
È un universo ricchissimo e mi diverte raccontarlo nelle sue molte sfumature.
Allo stesso tempo so che presto esplorerò anche altri territori della storia musicale, perché il viaggio è molto più ampio.

Il tuo canale YouTube è diventato un punto di riferimento per chi vuole scoprire la storia della musica in modo accessibile e coinvolgente. Come riesci a mantenere un equilibrio tra rigore storico e linguaggio fresco, capace di parlare anche ai più giovani?
Nel mio ambito attuale, cioè la musica medievale e più in generale la musica antica, non c’è molta produzione online. Non mi considero affatto un punto di riferimento, ma da alcuni anni
pubblico così tanti contenuti su questi temi che è abbastanza naturale che chi cerca una parola chiave o un argomento specifico finisca sul mio canale. È un fatto di indicizzazione, più che altro.
Il mio intento, però, è sempre stato chiaro: raccontare questi argomenti con rigore storico e musicologico, basandomi sulle fonti e sulla letteratura reale, e senza cedere all’immaginario
fantastico-medievale che spesso domina internet. Cerco di mantenere un equilibrio tra precisione e chiarezza, perché la musica antica merita di essere spiegata per ciò che sappiamo e studiamo, non solo per come ce la immaginiamo. In particolare indirizzare gli spettatori verso i veri esperti del settore, dai testi, ai blog di docenti universitari.
La parte più complessa è stata capire a chi stessi parlando. All’inizio non avevo un pubblico definito e per più di un anno mi sono dedicato alla musica dell’antichità – Grecia, Roma,
Etruschi – un territorio estremamente difficile dal punto di vista delle fonti. Mi è servito per orientarmi, ma soprattutto mi ha fatto capire qualcosa che osservo quotidianamente anche a
scuola: ci concentriamo moltissimo sulla formazione dei più giovani, com’è giusto, ma diamo quasi per scontato che gli adulti siano “formati”, finiti. Come se, una volta concluso un ciclo
di studi, non avessimo più il diritto o la necessità di approfondire nulla, se non come semplice hobby. Io invece credo che non debba essere così. Non deve diventare un dovere, ma un orizzonte aperto: si può continuare a studiare, a scoprire, a ripercorrere territori nuovi anche fuori da ogni contesto accademico o istituzionale.
È una possibilità reale, e molto più diffusa di quanto raccontino gli stereotipi. Forse questo è il motivo per cui YouTube mi ha appassionato così tanto: mi ha permesso di parlare non solo ai ragazzi, ma anche agli adulti,
a persone che desiderano approfondire per curiosità, per piacere, per il gusto di capire qualcosa in più. E trovo che ci sia ancora una percezione sbagliata dei social come luoghi “da giovanissimi”, quando invece la realtà è opposta: ormai ci viviamo quasi tutti, e in Italia la fascia adulta è largamente predominante. Questo mi ha dato conferma che quel pubblico esiste e che merita contenuti complessi, non infantilizzati. Accanto a questo pubblico, però, ne è nato un altro. Lavorando con ragazzi e ragazze delle scuole medie, mi è venuto spontaneo creare anche una serie pensata per loro, con un tono più leggero, immediato, a tratti sciocco. Lì mi posso permettere di smontare temi molto tecnici e renderli accessibili, anche se inevitabilmente qualche passaggio più filologico resta sullo sfondo.
Trovare l’equilibrio tra rigore e freschezza è la parte più impegnativa del mio lavoro, ma anche la più divertente: significa costruire ogni volta un ponte tra mondi diversi, facendo in modo che ciò che studio e racconto resti vivo, comprensibile e alla portata di chiunque voglia ascoltare.
Nella musica medievale la figura femminile è spesso musa, simbolo e mistero. Come si riflette, secondo te, la bellezza delle donne in quelle melodie e nei testi dei Trovatori e dei Minnesänger?
Quando parliamo della “bellezza femminile” nella musica medievale rischiamo spesso di guardare il Medioevo con gli occhi dell’Ottocento. Il romanticismo ha plasmato un
immaginario fortissimo fatto di dame eteree, amori sublimati e castelli avvolti nella nebbia. Ma quel modello non è medievale: è una suggestione successiva, letteraria e in seguito cinematografica.
Se torno al Medioevo storico, musicale e documentato, la figura femminile è molto più varia di così. Penso a Ildegarda di Bingen, monaca, mistica e autrice di una musica spirituale unica; alle trobairitz, le trovatrici donne come Castelloza o la Comtessa de Dia, di cui
conserviamo testi e persino una melodia attribuita a lei; oppure a Christine de Pizan, poco più tardi, con La Cité des Dames, pietra miliare del pensiero femminile medievale.
A leggerlo con gli occhi di oggi pare quasi un manifesto politico. A tal proposito penso anche a Eleonora d’Aquitania. È un mondo ricco e sfaccettato, che studiose e studiosi, penso alla compianta Chiara Frugoni, hanno molto contribuito a riscoprire. È chiaro però che nei trovatori e nei Minnesänger l’amore cortese e la figura della dama occupano un posto centrale. Ma non possiamo leggere queste melodie con la stessa lente con cui interpretiamo una sonata di Listz o Schumann, le fonti sono spesso scarne, la notazione è essenziale, e l’idea moderna che la musica “dipinga” sentimenti o qualità estetiche non appartiene al XII secolo.
Applicare le categorie di Beethoven e dell’estetica ottocentesca ai trovatori sarebbe una complicazione. Allo stesso tempo anche il recupero moderno della donna medievale come figura autonoma, attiva, compositrice o intellettuale, pur nel giusto studio delle fonti, è comunque frutto della sensibilità contemporanea. La verità sta probabilmente nel mezzo: non era solo un simbolo idealizzato e irraggiungibile, ma neppure la protagonista assoluta del panorama culturale, musicale. Grazie agli studi più recenti, sappiamo che il ruolo delle donne era più complesso, più frastagliato, meno riducibile a una sola immagine. Per questo credo che, quando parliamo della “donna” nella cultura medievale, dobbiamo tenere insieme entrambe le cose: la realtà storica, fatta di limiti e strutture, e le nuove prospettive che ci permettono di riconoscere figure femminili importanti che per secoli erano rimaste ai margini del racconto.
La tua attività di divulgatore ti porta spesso a contatto con il pubblico, dalle abbazie ai festival. C’è un momento o un incontro che ti ha particolarmente colpito e che ti ha fatto capire la forza comunicativa della musica antica?
La mia attività dal vivo è nata come conseguenza naturale della divulgazione online. Non faccio moltissimi incontri ogni anno, ma quelli che ho vissuto finora mi hanno segnato in modo diverso, ciascuno a suo modo.
Uno dei momenti più significativi è stato sicuramente all’Abbazia di Pomposa, un luogo che per chi studia la storia della musica ha un valore enorme. Lì ha lavorato Guido d’Arezzo, il
monaco dell’anno Mille che ha rivoluzionato la notazione, introdotto l’uso sistematico del rigo
e creato, attraverso un inno didattico, le sillabe da cui derivano i nomi delle note che usiamo oggi.
Tenere non uno, ma tre incontri proprio in quel posto è stata un’esperienza forte, quasi simbolica. Un’altra occasione importante è stata in Salento, durante un festival musicale: un viaggio lungo, lontano dalla mia quotidianità di Mondovì, ma proprio per questo ancora più bello. Lì ho parlato di trovatori, e ho avuto la sensazione di portare un frammento del mio lavoro in un contesto diverso, molto attento e molto partecipe.Poi c’è stata Pisa, in una delle sedi della Normale: un luogo che parla da solo. Parlare di musica medievale in un ambiente del genere, davanti a un pubblico così vario, è stato
stimolante e quasi straniante, nel senso positivo del termine.
Infine un’esperienza completamente diversa, più giocosa e libera: l’intervento all’Adunata di Feudalesimo e Libertà. Lì ho raccontato crociate, Duecento, trovatori e tutto ciò che ci gira
intorno, ma con un tono molto più leggero, vicino al loro stile ironico. Anche questo, per me, è divulgazione: cambiare registro senza snaturare i contenuti.
Se devo dire cosa mi hanno lasciato questi incontri, credo sia soprattutto la consapevolezza che parlare dal vivo è un’altra cosa rispetto a fare un video. Online preparo uno script, studio
articoli e fonti, costruisco una narrazione precisa in 20 o 30 minuti.
Dal vivo, invece, hai solo qualche appunto e un’ora intera da gestire, in relazione diretta con le persone. È un esercizio diverso, bellissimo e faticoso.
Oggi voglio concentrarmi principalmente sulla divulgazione online, perché mi permette di raggiungere più persone. Ma spero di continuare a fare incontri dal vivo: sono esperienze che ti rimangono e che, ogni volta, ti riportano al motivo per cui hai iniziato a raccontare tutto
questo.

Oggi la musica è ovunque, ma raramente si ascolta davvero. Cosa può insegnarci la musica medievale sul valore dell’ascolto e sul rapporto tra suono e silenzio?
Sono sempre stato un grande ascoltatore di musica, quasi compulsivo. Da ragazzo passavo ore a cercare di capire perché certi brani mi colpissero: le strutture, gli accordi, le scelte formali. Era un ascolto attentissimo, quasi fisico. Oggi, paradossalmente, sono spesso un
ascoltatore più distratto. L’uso delle piattaforme ci porta a consumare quantità enormi di musica, ma a ricordarne poca. Non è solo l’età: è proprio il modo in cui ascoltiamo che è
cambiato. E qui la musica medievale, secondo me, ha molto da insegnare. Non tanto perché “suonasse meglio” o fosse più pura, ma perché era costruita su un presupposto. completamente diverso dal nostro: la memoria.
Prima ancora della notazione, la musica era affidata alla voce, al corpo, alla ripetizione, all’oralità. E anche quando la notazione si sviluppa, nei trovatori e oltre con i mottetti e nelle polifonie, l’oralità rimane un elemento
fondamentale. Le persone imparavano ascoltando, ripetendo, interiorizzando.
Questo ci ricorda una cosa semplice ma importante: la musica ha bisogno di spazio. Di silenzi, di tempo, di attenzione. Non è un sottofondo. Nel Medioevo non poteva esserlo: non esistevano i dispositivi, i playlist, lo “skip”. La musica era un evento, un rito, un gesto da
ricordare e da trasmettere. Dico queste parole roboanti, ma con le premesse delle risposte precedenti.
Oggi viviamo in un mondo completamente diverso, con possibilità enormi. Però continuiamo
a imparare canzoni a memoria, continuiamo a portare dentro di noi melodie, filastrocche, ritornelli. E questa è la parte più “medievale” che ci è rimasta: l’idea che il suono, per restare,
debba essere ascoltato davvero.
La musica medievale ci invita proprio a questo: a riascoltare con lentezza, a fare spazio, a non lasciare che tutto scivoli via senza sedimentare. È un invito che vale molto anche per la musica di oggi.
Tra i tuoi progetti futuri ci sono nuove puntate dedicate all’Ars Nova e alla notazione del Trecento. Cosa possiamo aspettarci da questa nuova fase del tuo percorso e quale messaggio vorresti trasmettere attraverso il tuo lavoro?
Questo nuovo format nasce in modo molto naturale dal lavoro che sto portando avanti da anni. Da quando ho iniziato a occuparmi di musica medievale su YouTube, mi sono sempre
preso la libertà di fare, ogni tanto, delle deviazioni: presentare libri che ho letto, spiegare come affronto una ricerca, mostrare le fonti che uso. È un modo per far vedere non solo cosa racconto, ma come ci arrivo.
A forza di studiare il Medioevo, però, mi sono reso conto di un’altra cosa: quando questo periodo entra nella cultura popolare – nei film, nelle serie, nei videogiochi, nei contenuti brevi dei social – diventa quasi sempre un Medioevo fiabesco, poetico, pieno di flauti, arpe, bardi e melodie che “suonano medievali” solo perché evocano un’atmosfera vaga. È un immaginario affascinante, spesso divertente, ma molto lontano dalle fonti. E non è un caso: è un’eredità
diretta della reinterpretazione ottocentesca, romantica, che ha influenzato tutto ciò che è
venuto dopo. Da qui l’idea della miniserie. Vorrei partire proprio dalle scene dei film, dai videogiochi, dalle
tendenze dei social, per far vedere come viene rappresentato il suono medievale oggi. E poi, accanto a queste immagini, provare a raccontare cosa sappiamo davvero della musica dell’epoca: gli strumenti reali, le tecniche vocali, i repertori, il lavoro degli ensemble che
ricostruiscono la prassi storica.
Non per fare una gara di “chi è più autentico”, ma per offrire un confronto onesto e spero stimolante. Mi interessa questo passaggio perché credo che lo stesso meccanismo si ripresenti in ogni epoca storica. Quando un giorno parlerò del Rinascimento, o della musica seicentesca (uno dei miei periodi preferiti), ci saranno altre forme di stereotipo, altri prestiti, altre semplificazioni che il cinema e i media hanno costruito nel tempo. Vederli da vicino, affiancarli alle fonti e alle ricerche, può diventare un modo per capire meglio sia l’immaginario contemporaneo sia la storia reale.
In fondo è questo che vorrei trasmettere: la voglia di guardare dietro l’immagine, di andare oltre il “suona medievale” e scoprire cosa c’è davvero sotto. Ed è quello che continuo a fare sul mio canale Mastro Elia.
Ti ringrazio sinceramente per queste domande: mi hanno dato l’occasione di riflettere ad ampio raggio su ciò che sto costruendo e sul perché continuo a farlo.
Un dialogo con Mastro Elia è come aprire un manoscritto antico e scoprire che le sue note parlano ancora di noi: di emozioni, di ricerca, di bellezza che attraversa i secoli e continua a risuonare, viva, nel presente.









